L'eticità di una professione: un concetto caleidoscopico

L'eticità di una professione: un concetto caleidoscopico

Pubblichiamo qui sotto la lettera che il dottor Simone Fagherazzi ha scritto in risposta ad un articolo dell'avvocato Carlo Alberto Zaina scritto per cannabisterapeutica.info, contenti di aver creato un dibattito che speriamo possa essere utile a tutti dai giuristi ai medici, passando per i pazienti, di cui ci si dimentica troppo spesso. E' possibile leggere l'articolo dell'avvocato cliccando QUI.

[Il dottor Simone Fagherazzi Il dottor Simone Fagherazzi

Gent.mo Avvocato Zaina,
non ci conosciamo personalmente ma ho l’onore di averla tra i miei amici di Facebook e quindi seguo sempre con interesse quello che pubblica. Ho apprezzato il suo intervento in commissione Giustizia, le mie obiezioni le esporrò in un video dedicato.
Dato il nostro collegamento informatico indiretto ho avuto modo di leggere prima il suo commento all’intervento della Prof. Bertol che di vedere l’intervento stesso. Ciò che ho apprezzato, in questo post Il dottore fa riferimento al post su Facebook che potete leggere qui sotto, ndr), è la professionalità che ha dimostrato richiamando la professoressa sull’essere uscita dal campo per cui era stata interpellata.

Schermata 2016-05-31 alle 17.07.15Quando ho letto il suo articolo di precisazione su cannabisterapeutica.info, (di cui da diversi mesi ho l’onore di essere il medico ufficiale che risponde via mail ai pazienti dubbiosi) ho, però, provato un estremo dispiacere. Non tanto per la sua opinione legale che rispetto profondamente anche se non condivido, (in questo campo l’esperto è lei sicuramente), ma ha fatto anche affermazioni “mediche” che l’hanno fatta un po’ sconfinare da quelle che sono le sue competenze.

Vorrei spiegarmi meglio e conto sulla sua ragionevolezza di discussione anche con chi ha opinioni differenti dalle sue.e vorrei quindi passare all’analisi di alcune affermazioni della sua lettera la cui lettura integrale può essere fatta sul CANNABITERAPEUTICA.INFO


E’, peraltro, pacifico che non si può confondere il concetto di malattia con il concetto di benessere.

Corretto, specifichiamo. La malattia è una condizione riconosciuta come “deviazione dalla normalita” (mi si passi l’estrema sintesi). Il problema fondamentale, in medicina, è che non ci sono solo le malattie con le etichette, quelle facilmente riconoscibili e trattabili con gli enormi progressi moderni. Data la poliedricità soggettiva di questo concetto, l’OMS ha chiarito le cose ed indica la Salute (quell’equilibrio a cui ogni persona aspira quando sperimenta una condizione di patologia) “non solo assenza di malattia ma BENESSERE fisico, psichico e sociale”.

Ciò che lei ha detto è formalmente corretto ma credo anche che vada visto nella giusta ottica. Credo, infatti, che il suo pensiero si potesse meglio esprimere come la non possibilità di confondere il “sollievo sintomatologia certificato” da quel “sollievo psico-fisiologico” che nessun medico si azzarderebbe mai a certificare (non riconoscendo una patologia di quelle etichettatili e quindi non volendo incorrere in questioni legali) ma che è realmente percepito dal paziente in termini di miglioramento della qualità di vita. Se la mia interpretazione è corretta (e se non lo è la prego di farmelo notare) allora siamo di fronte ad un dilemma perché abbiamo una porzione di pazienti che possono essere considerati “malati” (su definizione OMS) ma che non possono aver accesso a quel “benessere fisico, psichico e sociale” in quanto la condizione di sofferenza reale che loro percepiscono non è etichettabile. È soggettiva, concetto che riprenderemo meglio dopo. Tale fetta di pazienti, dicevo, è destinata a ricevere perennemente un “non possiamo fare niente” di risposta o un trattamento farmacologico sintomatico approssimato che mira esclusivamente e coscientemente ad alleviare, spesso in minima maniera, i sintomi a fronte, solitamente, di effetti collaterali che il paziente lamenta. Ma è il paziente che si deve adattare alla condizione. Viene quindi capovolta la gerarchia della professione medica. è il medico che dovrebbe essere a servizio del paziente, ad oggi, invece, si considera il paziente come un “cliente” od “oggetto” da trattare secondo parametri stabiliti da altri “medici” che molto poco spesso vengono messi in discussione perché espressione di quella “classe ufficialmente riconosciuta” altresì detti “esperti sul campo”. Le audizioni alla camera hanno dimostrato che, nel campo della Cannabis, la selezione di questa tipologia di persone (qualora ce ne fosse una) pecca in maniera molto significativa di professionalità (Lei a parte, nelle mie “pagelle” che esporrò a breve sul mio sito, è uno dei pochissimi ad aver preso una piena sufficienza)


Io credo che sia necessario, per qualunque situazione, porre delle regole precise e chiare, pena il Far West.

Qui lei inizia a mostrare quello che è il suo pensiero sulla cannabis. Lei fondamentalmente non approva l’utilizzo di questa sostanza, la considera chiaramente come una droga, la domanda che vorrei farle è se la considera tale solo in ambito professionale per una “formalità necessaria” oppure se è fermamente convinto che lo sia. In caso di positività della seconda risposta allora mi permetta di dirle che non ha capito molto di quello di cui tratta. La cannabis è una droga dal punto di vista formale ma non lo è dal punto di vista prettamente scientifico. Il sistema di cui stiamo parlando, chiamato come lei sa benissimo Endocannabinoide, è un sistema che il nostro organismo umano ha da 600 milioni di anni che condividiamo con moltissime specie animali e senza il quale ognuno di noi non potrebbe essere al mondo in quanto indispensabile per il processo di riproduzione umana (si veda il post sul mio esame di scuola di specializzazione)

I recettori appartenenti a questo sistema sono tra i più diffusi del corpo umano e la loro presenza è stata dimostrata praticamente in ogni distretto corporeo. Le sue più interessanti azioni sono quelle sul sistema immunitario ed endocrino la cui interpretazione, fatta da chi ha ancora un po’ di curiosità medica, -quella curiosità che viene spenta a mazzate sui denti nel lungo cammino accademico che ti permette di acquisire quella voce in capitolo “riconosciuta”- potrebbe far rivedere completamente i criteri della medicina da così come li conosciamo. Ovviamente un cambiamento così radicale di pensiero è a tutt’oggi molto difficile ma le prime teorie su una possibile “sindrome da deficienza di cannabinoidi” sono state esposte dal Prof. Russo ancora qualche anno fa. Tale sindrome raccoglierebbe quella fetta di pazienti di cui si parlava prima. Se si pensa che questo risolva le cose ci sbagliamo di grosso. Le complica ulteriormente.


Ciò non significa, però, che si possa in maniera indiscriminata ritenere sussumibile sotto il concetto di uso terapeutico, qualsiasi sintomatologia soggettiva. Si corre, infatti, il rischio che sotto l’insegna della terapia, moltissime persone tentino di giustificare un consumo che di terapeutico non ha nulla.

Ecco perché vi dicevo che le cose si complicano, la soggettività è PROPRIO alla base della medicina, avvocato, checchè ne dicano i miei colleghi professori. Il problema è che ce ne siamo dimenticati, per enorme paura. Per quella stessa paura ci siamo affidati in maniera cieca ed irrazionale alla Evidence Based Medicine. Attenzione, io condivido pienamente i criteri di tale scienza e li ho rispettati rigidamente durante il periodo universitario. Esattamente come nella cannabis anche qui è un concetto di misura. L’EBM estremizzata è come la cannabis assunta in maniera eccessiva. Fa male. Fa perdere quella capacità critica razionale dell’uomo che va al di la di una semplice ricerca su un database informatico, è quella capacità che dovrebbe rendere il medico abile a discernere quali studi sono stati fatti per un chiaro interesse monetario da quelli che sono stati realmente condotti per migliorare le condizioni della medicina. Negli ultimi anni si è assistito ad una forte critica proprio della evidence based medicine tramite un articolo riportato su Lancet e che vedeva personalità di spicco dell’editoria scientifica dichiarare la presumibile falsità di almeno il 30% dei lavori. Mi sento in cuore di dire, per esperienza personale, che questa percentuale è sicuramente calcolata al ribasso. quindi perché accettare per vero un qualcosa che si sa essere falso nel 30% delle possibilità? un bel dilemma pure questo.


Ed è un rischio che non si deve correre, pena lo svilimento del consumo terapeutico e la commissione di illeciti nella falsa prospettiva di una cura (i furbi ed i disonesti abbondano ovunque).

Attraverso l’utilizzazione dei termini “furbi” e “disonesti” si può comprendere ancora la non accettazione dell’avvocato dell’utilizzo di Cannabis se non sotto strettissimo ambito terapeutico. Questa distinzione effettuata dall’avvocato non è a mio avviso molto pertinente in quanto i “furbi” come li chiama lui, non avrebbero ragione di esistere se anche l’avvocato cambiasse il suo approccio verso questa sostanza e la iniziasse a considerare nel suo reale ruolo di fitoterapico. Ogni libera persona può avere del rosmarino sul davanzale e così ogni libera persona dovrebbe poter avere la Cannabis. Non per “sballarsi” allo sbaffo delle forze dell’ordine ma per avere, a propria disposizione, un importantissimo strumento di salute. La pianta potrebbe essere utilizzata nella sua interezza e il paziente potrebbe avere la possibilità si scegliere lui stesso la terapia che, come un vestito o la quantità di peperoncino che mettiamo nell’aglio e olio seguirebbe esattamente le sue necessità e non quelle di chi vuole lucrare su questo affare d’oro. Ecco quello che fa paura. Che il paziente “rubi” al medico quel ruolo, puramente di convinzione morale, che gli conferisce superiorità intellettuale e gli consente la licenza di coscienza, di prendere le decisioni migliori completamente in vece di altre persone, i suoi pazienti. Facendo questo, ci siamo dimenticati che ognuno ha la propria vita ed il proprio percorso e che un approccio più oggettivo e meno soggettivo si sta dimostrando essere sempre più efficace dapprima nella percezione del “servizio” da parte del paziente e, di conseguenza a questa, n reale miglioramento sulla condizione patologica effettiva. Ma si sa, questi sono discorsi da stregone che molto pochi dei miei colleghi condividono.


La nozione di libertà di cura comprende un concetto astratto e generico. Indubbiamente chiunque ha diritto di autodeterminarsi (in ossequio e con i limiti previsti agli artt. 32 Cost. e 5 c.c.). Questo diritto, però, a mio avviso incontra limiti di natura oggettiva, primo fra tutti, la obbiettiva efficacia del prodotto rispetto alla sintomatologia (giacchè se si tratta di patologia nulla quaestio perchè interverrebbe una certificazione medica).

Chi lo propugna in relazione alla cannabis non tiene, in fatti, in debito conto la circostanza che vi sono tante altre diverse e distinte ipotesi curative in relazione alle più disparate sintomatologia, la gran parte prive di minime evidenze scientifiche.

La nozione di libertà di cura non è assolutamente un concetto astratto e generico è la rappresentazione figurata tramite fonemi o lettere di una concreta e reale sofferenza umana che molto spesso viene minimizzata per far fronte all’imperante e soggettivo senso di colpa di non poter fare niente. Alcuni la chiamano oggettività professionale. Io la chiamo totale mancanza di empatia. È mia considerazione personale è che tale caratteristica sia necessaria ma non sufficiente per esercitare al meglio la professione di medico. L’attuale sistema politico-legislativo, tuttavia, limita estremamente le possibilità di azione di questi professionisti che vedono lesi il proprio diritto statutario di operare in scienza e coscienza costringendolo ad utilizzare esclusivamente dei prodotti “certificati” il cuì processo necessario a questa certificazione è spesso oggetto di diverse critiche. Forse la libertà di cura dovrebbe essere ripensata in termini ideologici. Attualmente, nei farmaci che vengono sviluppati, uno dei parametri che le aziende debbono per forza valutare per fornire i loro bilanci è a quanto può essere venduto tale farmaco e quanto ci si può guadagnare. Tale parametro, talvolta, acquisisce un’importanza talmente imperante da viziare tutto il corollario di buoni propositi che accompagnava l’iniziale idea di “miglioramento di cura”. Ideologicamente, quindi, la libertà di cura andrebbe ripensata in un mondo utopico ed ideologico dove i farmaci non hanno un costo. Quella sarebbe VERA libertà di cura. Per ora limitiamoci ad ampliare il più possibile questo concetto utilizzando al nostro meglio il raziocinio.


io non ci sto più avvocato. E’ ora di dare ascolto a quella dichiarazione stilata dalla coalizione internazionale dei pazienti per la cannabis terapeutica (IMCPC) che ad UNGASS 2016 ha richiesto a grande, quanto inascoltata voce, di rimuovere il THC da tutte le tabelle e considerare finalmente la realtà dei fatti. Che dovremmo dimostrare più gratitudine, anche ad una pianta, per il semplice fatto di aver permesso all’uomo di abitare questa terra. Scusate ma, a me, non pare poco.

La ringrazio per l’eventuale attenzione,

un caro saluto.

un abbraccio a tutti da Katmandu

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Simone Fagherazzi - www.dikesalute.com

31 maggio 2016
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