Cannabis terapeutica e malattie neurodegenerative: tra speranze, limiti e nuove prospettive per Parkinson e Alzheimer in questo articolo del farmacista Matteo Mantovani
Le malattie neurodegenerative—come Parkinson e Alzheimer—sono tra le più complesse e difficili da trattare. Negli ultimi anni, la cannabis terapeutica ha suscitato un crescente interesse come possibile alleato per alleviare i sintomi o addirittura rallentare il decorso della malattia. Ma cosa c’è di concreto sotto questo interesse? Andiamo con ordine.
Il legame tra sistema endocannabinoide e cervello
Il nostro cervello è ricchissimo di recettori del sistema endocannabinoide, che regolano processi fondamentali come movimento, memoria, umore, infiammazione e risposta allo stress ossidativo. Proprio questi meccanismi sono alterati nelle malattie neurodegenerative.
Ecco perché i ricercatori ipotizzano che modulare il sistema endocannabinoide con cannabinoidi (naturali o sintetici) possa avere effetti positivi
Parkinson: tra speranza e prudenza
Il Parkinson si presenta soprattutto con sintomi motori (come tremore, rigidità, lentezza nei movimenti), ma può essere accompagnato da insonnia, dolore, ansia e altri disturbi non motori. In questi ambiti, alcuni studi clinici segnalano risultati promettenti:
- Una review sistematica del 2022 ha analizzato sia trial randomizzati che studi osservazionali: in mancanza di prove abbastanza forti per raccomandare l’uso routinario della cannabis, alcuni segnali clinici suggeriscono possibili benefici su tremore, ansia, dolore, qualità del sonno e qualità di vita dei pazienti (*1)
- Un altro studio recente mostra che Cannabis, CBD e nabilone (analogo sintetico del THC) hanno migliorato in modo consistente sia i sintomi motori che quelli non motori se confrontati con placebo; gli effetti avversi rilevati sono stati lievi (*2).
- Un ulteriore report (2023) suggerisce che la cannabis medica può migliorare i sintomi del Parkinson e persino permettere una riduzione dell’uso di oppioidi per il dolore, con buona tollerabilità generale (*3).
Cannabis e Alzheimer: dove siamo arrivati
L’Alzheimer accompagna i pazienti nella lenta perdita di memoria, nella confusione, nei disturbi del comportamento, dell’umore e del sonno. In questo quadro, i cannabinoidi hanno stimolato l’interesse per alcuni meccanismi:
- Una recensione del 2019 indica che il CBD — e ancor meglio la combinazione CBD + THC — potrebbe agire su fattori causali dell’Alzheimer, ad esempio inibendo processi neurodegenerativi e l’accumulo patologico di proteine nocive (*4).
- Una revisione del 2024, pur auspicando ulteriori conferme cliniche, sostiene che molti cannabinoidi (naturali e sintetici) si sono dimostrati efficaci nel migliorare memoria, cognizione e sintomi comportamentali nei modelli sperimentali, grazie a meccanismi antiossidanti e immunomodulatori (*5).
- In particolare, i cannabinoidi sono stati valutati per alleviare l’agitazione, un sintomo neuropsichico frequente e gravoso nell’Alzheimer; i risultati suggeriscono possibili effetti ansiolitici, stabilizzanti del ritmo circadiano e neuroprotettivi, anche se con qualche rischio (sedazione, interazioni, potenziali crisi) (*6).
Limiti e prospettive future
Ad oggi possiamo dire che la cannabis non rappresenta una terapia risolutiva per Parkinson o Alzheimer. Tuttavia, i dati raccolti aprono scenari interessanti:
- Possibile uso come coadiuvante per migliorare qualità di vita (sonno, ansia, agitazione, dolore).
- Potenziale ruolo neuroprotettivo, ancora da dimostrare nell’uomo.
- Necessità di studi clinici più ampi, con formulazioni standardizzate (THC, CBD, rapporto preciso, presenza di terpeni), per avere risposte affidabili.
La ricerca è chiara su un punto: la cannabis non cura le malattie neurodegenerative, ma può aiutare a gestire alcuni sintomi che peggiorano la qualità di vita dei pazienti e delle famiglie.
Per Parkinson e Alzheimer, al momento, parliamo soprattutto di supporto sintomatico, con qualche indizio promettente sul fronte della neuroprotezione.
Il futuro dipenderà dalla capacità della scienza di portare queste osservazioni dal laboratorio alla clinica, con studi solidi e protocolli condivisi. Nel frattempo, ogni uso deve essere sempre valutato caso per caso, con il supporto del medico.